venerdì 27 dicembre 2013

La fine del diritto e la società della disperazione (di Antonio Pimpini)

Il Paese che, a giusta ragione, era definito la culla del diritto, ora è divenuto il postribolo del rovescio, lo è in tutto, quindi anche nella macchina della giustizia.
Ancora una volta, gli interventi settoriali e malfatti, proposti da una masnada di buoni a nulli, appaiono volti unicamente ad impedire il soddisfacimento della sete di giustizia, addirittura facendo apparire come conquiste di civiltà veri atti iniquità e di devastazione di conquiste acquisite al patrimonio comune. Ma è ormai in atto un disegno criminoso delle istituzioni  e della casta (la vera e la più pericolosa) della Magistratura, con la complicità di parte dei media, per delegittimare tutti i presidi di garanzia del cittadino, creare uno stato di polizia in tutti i campi, fiscale, civile, tributario, pubblica sicurezza, prevenzione, sport.
Come se non bastasse, la privacy, o meglio, il diritto alla riservatezza, è ormai svuotato di ogni contenuto, per essere stato soppiantato dallo spionaggio continuo in ogni settore, dal profilo ludico a quello finanziario, nessuno escluso.
Ma andiamo con ordine. La recente puntata della trasmissione killer su raitre, Report, ha dedicato ampio spazio ad una sorta di valutazione comparata (e sinceramente unilaterale, oltre che atecnica) tra la giustizia penale italiana e quella americana e inglese (come se dovessimo emulare esempi di paesi lontani anni luce dalla nostra cultura giuridica e dalla civiltà in generale). In tale contesto, la lente del giustizialista – giornalista puntava il dito sulla prescrizione del reato, descrivendola come la causa principale – udite udite - del mal funzionamento della giustizia italiana. Inoltre, tale istituto, di assoluta civiltà e garantismo, veniva mostrato come abusato dai difensori e, in maniera particolare, da chi poteva ottenere differimenti sine die perché principe del foro o plurimandatario in cause importanti.
All’improvviso l’accorto giornalista poneva la domanda al meraviglioso magistrato intervistato nel servizio, precisamente se la prescrizione esisteva negli ordinamenti americano e inglese e il magistrato intervistato cosa faceva? Immediatamente, a conferma della sua efficienza in tempo reale, telefonava dinanzi alla telecamera ai suoi colleghi inglesi e americano, ai quali prima chiedeva lumi sull’esistenza della prescrizione del reato e poi sulla eventuale adozioni nei loro Paesi dell’amnistia e dell’indulto. La risposta era ovviamente negativa per entrambe le domande, tanto che poi si approfondiva la questione e il messaggio che si dava al telespettatore era, peraltro espressamente invocato per il tramite di altro tecnico del diritto del common law, la possibilità di perseguire chiunque per qualsiasi reato e in ogni tempo, senza la presenza di questo fardello della prescrizione. Spenta, la televisione mi sentivo assalire da una grande preoccupazione. Gli interventi del legislatore sulla normativa sostanziale e processuale erano, dal dopoguerra in poi, caratterizzati da isterismo, tecnica di redazione delle norme a dir poco allegra, introduzioni di istituti ibridi e da normative spesso contraddittorie, ma, almeno sino al 1989 – 1990, la spinta al processo accusatorio, quale espressione principale di garanzia e presidio di giustizia, aveva tenuto alto il profilo della tutela dell’imputato, tanto che il meraviglioso meccanismo del codice Rocco, poteva essere soppiantato solo da una riforma ispirata ad esigenze superiori di tutela del soggetto sottoposto a procedimento penale. Fino ad oggi nessuno aveva mai posto in discussione le garanzie di cui devono godere gli imputati e i meccanismi previsti dal codice di rito per salvaguardarle.
Ma il tentativo, chiarissimo e sfrontato, con cui si tendeva a far breccia nelle ignare coscienze dei telespettatori attraverso l’abrogazione della prescrizione, è un chiaro tentativo di violare il diritto di difesa e, nel contempo, l’altro, non di poco conto, di sollevare la magistratura dal dovere di agire e lavorare nel rispetto della legge, garantendo al massimo l’imputato (chiunque esso sia), evitando che la giustizia si trasformi in arbitrio.
Infatti, chiunque può trovarsi sottoposto a procedimento penale (e nella maggior parte dei casi risulterà del tutto estraneo ai fatti), per cui la predeterminazione di un termine entro il quale lo Stato possa sottoporlo a processo non costituisce affatto fattore criminogeno, ma scelta di civiltà giuridica che non può essere inficiata dall’abuso o dalle storture che possono comunque esserci nell’uso di qualsiasi strumento e funzione, anche la più lecita e legittima. Immaginiamo cosa accadrebbe se un soggetto dovesse subire a 50 anni un processo per aver partecipato ad una rissa a 19 anni!
Dopo pochi giorni, il governo si affacciava nuovamente alla ribalta con una roboante conferenza stampa, dove sfoggiava la soluzione per il sovraffollamento delle carceri, inserendo anche alcune chicche per il processo civile. La preoccupazione iniziale si trasforma in stato d’ansia.
Per quanto riguarda l’ignobile problema degli istituti di pena, a fronte di una popolazione carceraria che eccede di circa 30.000 unità quella che le strutture riescono a contenere, si profila una soluzione che, senza automaticità – come ha avuto modo di affermare tronfia il ministro dell’ingiustizia e del doppio peso – potrebbe semmai interessare 1.700 detenuti. Quindi, nessuna soluzione, la questione resta gravissima e lo stato di chi è recluso permane al di sotto della soglia animale.
Ma sulla giustizia civile il disegno criminoso e liberticida del governo diviene definitiva certezza.
Ecco, in breve, le proposte confluite nel ddl, dopo che nell’estate scorsa, erano stati aumentati i contributi per le iscrizioni e ruolo della cause fino alla metà in più per l’appello e il doppio per il ricorso in Cassazione.
a)      Scelta del rito rimessa all’arbitrio o eufemisticamente alla discrezionalità del Giudice, a condizione che la causa sia di semplice soluzione. Scelta difficile, poiché tutte le cause sono semplici se si colpisce nel segno, così come diventano difficili se si assumono decisioni errate. L’eliminazione del principio dispositivo impedisce il concreto esercizio del diritto di difesa anche in ordine al diritto alla prova, poiché, se il giudice trasforma il rito, la parte non avrà più la possibilità di recuperare sul piano istruttorio e la verità processuale, minima espressione di giustizia sostanziale, va a farsi benedire in attesa dell’esecuzione.  
b)     Viene introdotto il Giudice unico anche in II grado per determinate cause, così il controllo che consegue ad una composizione collegiale e lo stimolo a migliore verifica diventano chimere di tempi passati e aneliti da sopprimere;
c)      Motivazione  apparente e a pagamento in I grado, poiché si consente al giudice di effettuare un semplice e mero richiamo ai fatti causa accompagnato alla semplice indicazione delle disposizioni legislative sulla base delle quali l’autorità giudiziaria ha deciso in un senso o nell’altro. La motivazione potrà essere solo richiesta dalle parti, ma queste dovranno versare una quota, al momento non chiarita né esattamente determinata, del contributo unificato per il grado di appello, per poter comprendere le ragioni della scelta operato dal giudice. Chissà, poi, se i proventi (estorsivi) per conoscere le ragioni di un accoglimento o un rigetto, andranno a creare un fondo incentivante per i Magistrati ! Penso che una scelta del genere non meriti altro appellativo per chi l’ha approvato in sede di cdm (consiglio dei mascalzoni) di vergognarsi. E’ la fine del diritto e l’inizio del rovescio, con il definitivo riconoscimento del potere assoluto dei giudici non più sottomessi alla legge, alla motivazione e al controllo nei gradi successivi, ma semplicemente alle loro scelte meramente potestative e, quindi, all’arbitrio. Il sistema dei controlli, che garantisce lo stato democratico vale per tutti tranne per i magistrati che decidono, però, su tutti e li segnano a vita. L’approvazione di un parlamento non più rispondente a coscienza morale ma ad ordini di scuderia anche se questi calpestano i diritti basilari, consentirà all’ingiustizia di fare purtroppo il suo corso legislativo.
d)     La motivazione diventa apparente e finanche per relationem in II grado. In altri termini, in appello la Corte, che già per alcune materie potrà decidere in composizione monocratica e nella forma della petizione di principio come indicato nel punto b), potrà legittimamente riportarsi, nella decisione di II grado, alle motivazioni (di per se già telegrafiche e spesso criptiche) del giudice di prime cure, senza alcun altro adempimento! L’abrogazione della motivazione coniugata all’insussistente fase del riesame della decisione di I grado costituisce segnale di una barbarie giuridica che evidentemente è seconda solo a quella morale e di onestà culturale di chi l’ha pensata e di chi l’approverà.
e)      E’ stata anche pensata l’introduzione della condanna preventiva ad una somma di denaro per gli obblighi di facere infungibili, in merito alla quale andrà verificato il criterio, poiché non è legittimo consentire al giudice di creare una sanzione civile indiretta.
f)       È prevista anche l’introduzione, non si comprende come e sulla base di quali presupposti, di un accertamento tecnico preventivo nelle materie particolarmente tecniche. La questione delicata è se tale scelta costituisca condizione di procedibilità e, soprattutto, se l’esito dell’accertamento condizioni la domanda. Inoltre, come creare il contraddittorio all’interno della fase di accertamento, tenuto conto che l’acquisizione probatoria preventiva non può essere certamente procedimentalizzata, ma deve garantire il contraddittorio al fine di epurare errori tecnici, che pur esistono e che dovranno essere epurati prevedendo che l’accertamento tecnico, che sicuramente non è una sentenza che passa in giudicato, debba avere una fase di controllo e verifica. Diversamente, l’ingiustizia è completa, ma forse è propria questa la ratio cui tende il nostro legislatore.
g)      Diverrebbe possibile, altresì, per gli Ufficiali Giudiziari, nel momento in cui eseguono il pignoramento, accedere alle banche dati per meglio conoscere il patrimonio del debitore. La circostanza, pur se apprezzabile, non deve condurre all’aumento dei costi per il soggetto procedente e comunque deve essere una scelta discrezione di quest’ultimo, altrimenti si giungere a forme di vessazione del soggetto creditore non soddisfatto, come è avvenuto con il famigerato istituto delle vendite giudiziarie che, oltre ad aver spesso surrettiziamente condizionato aste solo apparenti, ha anche costituito fonte di gravosi ed ingiustificati costi.
Tali improvvide scelte, che – peraltro – si aggiungono ad una gestione delle sentenze utilizzando la condanna alle spese di lite come strumento deflattivo, così che la sentenza sbagliata resta confermata per la paura di costi elevati in caso di appello. La finalità di sconsigliare l’appello, facendo cadere una mannaia finanziaria pesante su chi lo propone, non è altro che la conferma del grave disagio che viviamo, perché chi si rivolge alla giustizia viene criminalizzato e non affiancato, come dovrebbe essere quale logico corollario di un processo di prossimità tra cittadino e stato.
Ai predetti rilievi deva aggiungersi che la macchina della giustizia funziona, in verità, grazie ad un elevato contenzioso affidato e smaltito dai Giudici di Pace, magistrati onorari, privi di alcuna stabilità e che saranno ad horas drasticamente ridotti. Il contenzioso affidato alla indicata magistratura onoraria non è affatto inferiore a quello dei togati ed anzi consente una riduzione dell’aggravio per i Tribunale mai considerato sino a fondo. Al Giudice di Pace si aggiunge la pretora di VPO (avvocati o laureati in giurisprudenza che hanno svolto specifiche mansioni riconosciuto come cause d’accesso alla carica onoraria) che sgravano i PM togati dalla udienze fiume e dal lavoro in trincea e i GOT (avvocati che si dedicano a funzioni giurisdizionali sempre onorarie e non retribuite), che in alcuni realtà giudiziarie rappresentano la colonna portante del Tribunale e ne consentono ancora un barlume di efficienza.  Tutti questi soggetti sono i veri precari della giustizia, anche se sino ad oggi sono stati stabilizzati con proroghe sine die, e sono posti – in verità – al servizio del magistrato togato, poiché ne riducono sensibilmente il lavoro consentendogli carichi di lavoro sicuramente sostenibili.
Ebbene, a chi già ha generalmente benefici, riconoscimenti, poche spese, tempo per se e per la famiglia e, circostanza di una gravità assoluta, alcuna responsabilità per i propri atti (se i Magistrati applicassero su se stessi la rigida e pesante mano sanzionatoria derivanti dal solco giurisprudenziale attuato per i casi di responsabilità medica, quanti ne rimarrebbero in servizio?), vogliamo anche ritenerli per legge non obbligati a lavorare. Via la motivazione, introduzione di sentenza prestampate con meri richiami, anche con semplici crocette, alle norme invocate, rinvio per relationem a sentenze che già in primo grado sono del tutto apparenti, Giudice unico in appallo e via dicendo. Diciamola tutta, lo Stato è diventato punitivo e sanzionatorio per chi ha in animo di agire in giudizio, contestualmente creando una mostruosa casta che lavora se, quando, quanto e, soprattutto, come vuole, senza che alcun altro soggetto possa controllarla. Tra breve si immetteranno i dati in un computer e, dopo pochi secondi, esce la sentenza, così via i giudizi, gli avvocati, i cancellieri e avremo la società degli schedati.
Se poi aggiungiamo le vessazioni del sistema tributario e fiscale, il disservizio sistemico della pubblica amministrazione, la fine della sovranità monetaria, la truffa del debito pubblico, la funzione politica ridotta ad esattore di un’Europa ingorda ed usuraia, il quadro è completo. La scusa della riduzione dell’inesistente debito pubblico con i tagli e gli enormi costi sociali, crea l’espulsione di milioni di persone dal livello minimo di vita: mi chiedo cosa resta dell’Italia?
Il sistema bancario che crea moneta virtuale e indebita l’intera collettività, l’agenzia delle entrate che vessa i cittadini ed agisce con la famigerata Equitalia in evidente conflitto d’interessi e con una sorta di cappio al collo.
E’ la società della disperazione e per uscirvi  non può esservi altra scelta che la rivoluzione.
Infine, il terrore mi assale, quando ascolto il Presidente del Consiglio Letta che, per giustificare la pressione fiscale in una della solite riunione tra i vari ministri europei, asserviti alla grande finanza, in risposta alla giornalista che gli chiedeva come potrà essere sopportata una pressione fiscale sempre maggiore, risponde candidamente o malignamente: “Non possiamo mica stampare denaro” !!!
Caro Letta, ma se uno stato non stampa denaro che senso ha? Riflettici! Poi però ho riflettuto anch’io e mi sono domandato, ma lo ha detto perché si riconosce impotente dinanzi al sistema bancario  e della grande finanza che ci domina e che riserva il signoraggio primario alla BCE o perché non lo sa?
Il terrore ora è anche coniugato disperazione, quella che ti prende quando capisci che il tessuto di una società è stato minato in radice e l’indebolimento delle  coscienze è giunto fino al punto da farci accettare supinamente ogni affermazione e decisione, anche quella che ci porterà alla fine.
A noi la scelta, accettare o ribellarci per ritrovare la speranza di un mondo migliore.


Antonio Pimpini

Nessun commento: